Perché tutto ciò che ruota attorno alla disabilità deve essere, per forza, ridotto a terapia? Arteterapia se si dipinge o scolpisce, ippoterapia se si vuole fare una passeggiata a cavallo, o terapia occupazionale se si “fa un giro per negozi”.

Perché si portano i ragazzi “normodotati” a corsi di musica per sviluppare le loro capacità e si portano quelli con esigenze speciali a fare musicoterapia? Non ci sono forse bambini e adolescenti con disabilità che sono veri artisti pieni di talento?

E qui dobbiamo fare un passo indietro a un piccolo evento che ho organizzato il 23 e 24 novembre a Milano, il Festival delle Abilità. Una manifestazione che riuniva artisti con disabilità (nella prossima edizione, organizzata con Francesco Caprini, anche senza disabilità) di talento. Il sottotitolo recitava chiaro: Arte, musica e poesia. Ovvero le persone e le loro capacità musicali, lessicali o figurative. Una due giorni di concerti, performance teatrali e dibattiti. Ed è proprio durante uno di questi, dal titolo Fatti di-versi, che uno degli spettatori alza la mano e chiede: «Ma non ho capito, quindi non stiamo parlando di arteterapia, musicoterapia…?».

Una domanda che mi scuote e mi fa riflettere. Da circa un’ora infatti stavamo discutendo di musica, recitazione, scultura e pittura con artisti e attori che, grazie al loro talento, vivono della loro arte. Se ne dibatteva con lo scultore Felice Tagliaferri, col cantante rock Alex Cadili e quelli lirici Matteo Tiraboschi e Luca Casella. Si dialogava con Antonio Giuseppe Malafarina, pensiero e penna fine protagonista di questo blog, e Vainer Broccoli, giornalista esperto di musica. Infine con Francesca Cinanni, direttrice artistica dell’Accademia romano-milanese L’arte nel cuore. Tutti artisti con disabilità (tranne Francesca che però scopre e plasma i talenti di alcuni studenti disabili) che non appare nelle loro performance, nelle statue come nelle canzoni: sono opere che ascoltereste, ammirereste indipendentemente dalla condizione di chi le ha create. Non esiste l’arte disabile, esiste l’arte.

Da qui la sorpresa a quella domanda. Una cultura mancante

Perché ridurre tutto a un trattamento? Mi viene quindi un sospetto che molto spesso sia più comodo immaginare e vivere nell’alveo dorato del mondo riabilitativo dove sono gli altri a condurre il gioco, dove non ci si deve impegnare troppo, dove tutto è un ovattato gioco di nome terapia, piuttosto che confrontarsi con la realtà. Più facile che metterci faccia e cuore dovendo fronteggiare tante sconfitte per ogni vittoria. Una quotidianità che non obbliga a strappare con le unghie e coi denti quel pezzetto di successo a cui tutti aspiriamo. Chiedetelo ai giovani che si affacciano al mondo del lavoro che si sono spaccati la testa sui libri per 20 anni (scuole dell’obbligo, liceo, università e i master) per poi elemosinare un posto precario. Chiedetelo a quegli uomini e donne che a metà della loro vita vengono espulsi dal ciclo produttivo e devono raggranellare il pane da portare in tavola la sera.

Metterci la faccia e il cuore

Essere disabili non significa essere esenti dalla sconfitte, ma obbliga a usare tutte le proprie abilità per diventare il più possibile autonomi. Come ha sempre dimostrato Franco Bomprezzi, di cui il 18 dicembre è caduto il quinquennale della morte, che negli anni in cui lavorava per il Resto del Carlino si recava sui luoghi dei delitti- seguiva la cronaca nera – con i bastoni o in carrozzina. Un esempio di come non basti fermarsi a guardare (e criticare) il mondo che ci circonda perché questo ci integri, bisogna fare qualche passo nella direzione della società, fare per primi uno sforzo per integrarsi, per costruire insieme questa società inclusiva. Iniziare a vivere da persone normali, lontani dal mondo della terapia, per essere considerati come gli altri. Nel bene e nel male.

Tratto dal sito www. Superando.it