UNA LEGGE PER MORIRE, UNA PER VIVERE

Ha fatto molto discutere negli ultimi tempi la storia di DjFabo che, tetraplegico e cieco, ha voluto porre fine alla propria vita in una clinica svizzera. La nostra socia Valentina, tetraplegica anch’essa e nostra preziosa collaboratrice ha voluto intervenire commentando questo fatto ed esprimendo così il suo pensiero sulla necessità di intervenire anche in Italia con una legge che regoli questa delicata materia. Correttamente ha voluto anche riportare un parere diverso dal proprio sul modo di affrontare la sofferenza ricordando la storia ed il pensiero di Enzo Piffer, tetraplegico anch’egli, morto ormai da alcuni anni che Valentina aveva conosciuto in Unità Spinale quando era ricoverata per la riabilitazione.

SG

La drammatica vicenda di Dj Fabo, o meglio Fabiano col suo vero nome, ha riportato alla luce una ferita dolorosa e ha lasciato aperti tanti interrogativi. Non mi sento autorizzata ad entrare nel merito se questo ragazzo ha sbagliato nel compiere il suo gesto estremo; altri lo hanno fatto senza ritegno (basta guardare in internet), ma nessuno può giudicare se non ha provato una situazione simile, se non ci si è trovato dentro. Come dice un proverbio indiano “Prima di giudicare una persona cammina nei suoi mocassini per tre lune”.

Il punto della faccenda è un altro: in Italia non esiste ancora una legge completa e approfondita sul fine vita. È vero che il Parlamento ci sta già lavorando e sta esaminando varie proposte di legge: la materia è delicata, tra gli altri rischi c’è quello che si potrebbe legittimare la soppressione di persone con anestesie errate o criminali. Perciò va regolamentata. In modo attento e concreto, coinvolgendo medici e professionisti competenti e associazioni di parenti che hanno vissuto storie di questo tipo come la moglie del giornalista Welby e il padre di Eluana. Inutile la resistenza, sulla base di principi teorici, di certi esponenti cattolici. Farebbero meglio, a mio avviso, a restarne fuori, occupandosi piuttosto della “cura” dello spirito, coerenti nella fiducia che questo prosegue oltre la morte. Ed escluse dal dibattito devono essere anche le masse che, con ignoranza e superficialità, ritengono doveroso aiutare a suicidarsi un ragazzo che, “disgraziato… messo in quelle condizioni…” non sanno quello che dicono.

Bisogna comprendere a fondo le differenze, ad esempio, tra suicidio assistito e sospensione delle terapie, e poi calarsi in quei panni. Se provo ad immaginare di trovarmi in una condizione terminale, mi chiedo cosa farei. Sinceramente non lo so, ci sono casi in cui il limite tra la vita e la morte è sottilissimo e fare un salto dall’altra parte non è la cosa più terribile. Amo la vita e le sono attaccata tenacemente, però se la mia esistenza dovesse perdere di dignità, se non avessi qualcuno da amare, allora ne sentirei tutto il peso e la stanchezza. Non so cosa deciderei, ma su una cosa non ho dubbi: vorrei essere libera di scegliere.

Una persona che è totalmente immobile in un letto può ancora trovare degli ottimi motivi per vivere, però se non lo vuole è disumano che venga obbligata a farlo da altri che applicano regole e protocolli. La norma deve assolutamente tutelare questa libertà.

Qui però si apre un’altra pagina fondamentale: una legge sulla morte implica necessariamente una legge solida per la vita. Nel momento in cui uno Stato chiederà se sei sicuro di voler morire, prima dovrà averti dato tutte le risorse per combattere la tua avventura in modo dignitoso.

Si parla di tagli al sociale, di riduzione del personale per l’assistenza domiciliare, troppe sono le persone ancora in attesa dei contributi per la cosiddetta Vita Indipendente, viene richiesto di presentare l’ISEE in previsione di porre in futuro limiti più stretti. Ecco, tutto questo è materia per la legge sulla continuazione della vita. Davanti alla possibilità di interrompere un’esistenza, non è più accettabile che questi temi restino affidati alle diverse amministrazioni locali e ai risultati ottenuti dalle singole associazioni di volontariato, come avviene adesso. Serve una legge dello Stato, servono uguali finanziamenti e diritti per tutti. Non lasciamo che, passato il momento, cada l’urgenza.

Nei prossimi anni un ragazzo come Fabiano deve sapere che non peserà sulla famiglia, che con un computer personalizzato può fare quello che gli piace, che le sue necessità sono garantite. Dopodichè, la scelta è solo sua.

Valentina Bianco

Avevo conosciuto Enzo Piffer in ospedale, lui era tetraplegico da tempo io appena arrivata. Viveva sdraiato su un lettino con le ruote, spinto dalla moglie Anna, perchè a causa di problemi ossei non poteva più stare seduto in carrozzina. Non si era perso d’animo: con un paio di occhialetti prismatici riusciva a guardare le persone intorno a lui e a conversare scherzosamente. Il lettino, le barzellette, le sue verità taglienti dette in dialetto trentino sono quello che più ricordo di lui. Deciso sostenitore della pace e della vita, aveva partecipato al dibattito sul caso Welby (era l’anno 2006) con un articolo apparso sul quotidiano L’Adige, da cui riporto dei brani. Il suo punto di vista è quello di un uomo che ha dovuto lottare per sopravvivere, quando non esistevano nè una chirurgia neurologica nè una riabilitazione. Forse leggendo le sue parole dovremmo riflettere sulla fortuna di tutto ciò che abbiamo adesso, e riconoscere il grande valore della nostra vita, anche e soprattutto dentro alla sofferenza.

Valentina Bianco

NON STACCATEMI MAI LA SPINA

Enzo ci attende, e non potrebbe essere altrimenti, sul suo lettino. La moglie Anna è di là in cucina. Lui ha sul viso delle stringhe e delle cannule che portano aria nelle sue narici. Parla, si affatica, respira. Parla ancora. La sala è luminosa, tutto qui ricorda la presenza di una donna straordinaria. Anche quest’uomo è straordinario.

Enzo, perché non sei d’accordo con la battaglia di Piergiorgio Welby?

Credo ci sia un’area politica che sta strumentalizzando la sua sofferenza.

Tu non ritieni che una persona che soffre e la cui prospettiva è solo quella di soffrire e, poi, morire, debba avere la possibilità di decidere di smettere?

Dovremo parlare di eutanasia e di testamento biologico. E di accanimento terapeutico. Il testamento biologico si ha quando la morte la chiede una persona in pieno possesso delle sue facoltà mentali. Ma queste facoltà mentali sono tali al momento della firma del testamento. Non è detto che chi ha firmato poi la pensi così sino alla fine. Ho almeno cinque esempi personali che ti potrei fare.

Vuoi dire che hai sperato, o forse cercato, di morire molte volte?

So cosa vuol dire desiderare fortemente la morte. Avevo 19 anni e sentivo il corpo dilaniato da continue e dolorose punzecchiature. Ero lacerato, dolente, totalmente paralizzato, 24 ore su 24 il dolore. I medici non capivano, in quanto io avrei dovuto essere insensibile. Volevo fortissimamente morire. È durato giorni e giorni. Un’altra volta mi misero due chiodi nel cranio per sostenere un archetto che doveva tenere in trazione la spina dorsale. Quando ti mettono l’archetto pare che ti infilino la testa in una morsa e stringano per farti scoppiare il cranio. Accanimento terapeutico? Ma potrei raccontarti di peggio. Essendo entrato nell’abisso del dolore continuo, senza apparente speranza di uscirci, in varie occasioni avrei firmato per staccare la spina. L’ho anche chiesto a qualcuno…

Ma Welby morrà fra poco, non ha nessuna speranza. Avverte solo il dolore.

Lasciami andare avanti! Dopo 17 giorni e 16 notti di laceranti punzecchiature che mi devastavano anche la mente, oltre al corpo, mi sono addormentato per un paio d’ore, un pomeriggio. E mi sono svegliato senza più quei dolori. Ho pianto. E con l’archetto fissato alla testa la cosa è pure durata più giorni. Welby, dicono i medici, può vivere ancora 3-4 mesi. Mi chiedo: perchè anticipare la sua morte? Perchè staccare la spina? La morfina, ad esempio, può dargli quel sollievo fisico che può avvicinarlo all’ora della morte senza farlo soffrire tanto. Perchè invece volere farlo morire 60 o 90 giorni prima?

Ma vale la pena vivere la tua vita, con la qualità che ti è possibile?

Sììììììì. E la prima risposta la trovi di là in cucina (ndr, la moglie Anna).

Welby e tanti altri vivono in condizioni ancora peggiori delle tue, senza nessuna speranza. Dici no alla sua richiesta di lasciarlo morire, nell’illusione che in tre mesi la scienza trovi qualcosa per farlo stare meglio, per toglierli il dolore o dargli una speranza, anche una sola, di poterlo sopportare?

Se dipende da lui, fino all’ultimo secondo, la volontà di vivere o morire, io non posso fare niente. Ma se deleghi a qualcun altro l’azione di staccare la spina, chi mi dice che nel tempo che passa tra quella azione e la morte io non cambi idea? A quel punto non c’è possibilità di comunicare. Ma c’è di più, molto di più. Io detesto sentir dire che la qualità della vita è quella che definisce il diritto a farla finita per ognuno di noi. Io dico che attorno a me, o a Welby, c’è una società che può motivare la tua vita, fino all’ultimo istante. Non c’è bisogno di anticipare la morte.

Perché ostinarsi a voler tenere in vita una persona senza speranze, che non vuole vivere?

Perché, anche, puoi fare molto, farmacologicamente, per lenire il dolore e lasciar scorrere la vita fino al suo svolgersi naturale. Io in giardino ho un ciliegio piantato da mio padre. Vecchio e malato, ogni anno io e Anna dobbiamo potarlo un poco di più. Facciamo di tutto per farlo vivere, perché non con l’uomo?

Non sei un uomo di fede. In base a cosa, allora, ti ostini a sostenere che una persona non ha il diritto di decidere quando smettere di vivere nella sofferenza e senza speranza?

Il diritto c’è, ma a staccare quella spina devi essere tu e solo tu. Negli Usa un giovane uomo di sport, molto ricco, era attaccato ad un respiratore e chiese all’amico di staccare la spina. L’amico gli disse di no. Ma gli procurò il modo, con un computer, di dare quell’ordine alla macchina. Di darsi lui la morte, semplicemente pronunciando una frase. Quella frase non è mai stata pronunciata. «Ascolta. Ero in rianimazione a Rovereto e ho sentito i medici che dicevano: “Basta, l’abbiamo perso”. Mi sono detto che volevo andarmene, non avevo più il benchè minimo interesse a vivere, nessuna speranza. Poi ho visto entrare Anna. Non è un buon motivo per vivere? Dopo di allora ho basà 3.000 dòne, valeva la pena o no?» Entra la moglie Anna nella stanza. Lo ha sposato che era già paralizzato. E dice: «Io penso che la spina non si deve staccare per evitare di togliere ad un uomo anche un solo attimo di felicità, di serenità». Enzo ha un computer a comandi vocali. Gli parla e ci mostra la sua foto, e di Anna, sotto un ciliegio in fiore.

Poi si fa rimettere le cannule al naso e rientra nei suoi pensieri. E nei suoi mali: la lunghissima permanenza a letto gli ha devastato il corpo, dentro.

Ma lui guarda Anna e non vuole mollare il sorriso.

Enzo Piffer se n’è andato nel 2008, dimostrando fino in fondo di amare la vita, sempre. Ha lasciato un esempio di impegno attivo nella lotta per la pace. Affiancato costantemente dalla moglie Anna, Enzo ha insegnato ad usare la testa per agire, dialogare, per crescere attraverso il confronto, per costruire percorsi di giustizia, non violenza. In un’intervista ha detto: “La cosa più bella che ho, ce l’ho sempre vicino… è mia moglie. Secondo me, quando si capisce il perchè le altre persone si comportano in maniera diversa dalla nostra, riusciamo ad avvicinarci automaticamente a quella persona, e quindi a non avere più motivi di ostilità. La Pace è un impegno quotidiano, quindi di oggi, di domani, di sempre. Quando litighiamo per un vaso spostato sul tavolo, quando litighiamo perchè… volevo andare a cena in un ristorante invece di un altro… sono le Guerre più stupide!!! Però sono un modo per abituarci a fare la Guerra”.