ESSERE DONNE CON DISABILITÀ NELLA GIUNGLA ITALIANA

Grazie al progetto RiseWise a decine viaggeranno per l’Europa per studiare il fenomeno e proporre delle soluzioni

Le donne con disabilità in Italia spesso vivono nell’emarginazione, affidate solo alla buona volontà dei singoli. «Queste sono vittime di una doppia discriminazione», spiega Cinzia Leone, ideatrice del progetto europeo RiseWise. «Alla discriminazione di genere si aggiunge infatti quella della disabilità. Perché se la donna è spesso vista come un “oggetto”, il fatto di essere disabile la rende un oggetto difettoso».

RiseWise punta a favorire l’inclusione delle donne con disabilità fisica facendole diventare protagoniste della ricerca. Sino al 2020 a decine viaggeranno in Europa per tenere seminari e trovare risposte ai loro problemi: incroceranno gli studi sul tema con le tecnologie esistenti e le buone pratiche di ogni Paese, come l’assenza di barriere architettoniche in Spagna o l’inserimento sociale in Svezia.

«L’Italia è all’avanguardia per il volontariato», assicura Cinzia Leone. «Ma il disinteresse è tale che in un Paese dove i disabili sono tra i 3 e i 4 milioni, secondo i dati Istat e Censis, gli ultimi studi approfonditi sulle donne disabili risalgono al 2008».

Le donne disabili italiane sono circa un milione e 700 mila: come gli uomini, forse di più. «Ma sono meno visibili, perché più emarginate dal punto di vista sociale e lavorativo». Secondo i dati di Istat del 2013 lavorano solo il 17,3 percento delle donne disabili tra i 15 e i 64 anni: il 6,5 percento in meno rispetto agli uomini.

Tra le disabili lavoratrici c’è la maestra Alessandra Fabbri di Genova, 49 anni. Si muove con le stampelle a causa di una paraparesi spastica avuta alla nascita: dopo una laurea in lettere e una in scienza dell’educazione, ha conseguito un master in bioetica clinica e un dottorato in filosofia. «Nel frattempo sono riuscita a diventare maestra di ruolo. Il problema è che mentre le scuole si sono adeguate alla disabilità degli studenti, la disabilità degli insegnanti non sembra prevista». Fa l’esempio degli spostamenti interni dentro la sua scuola. «L’edificio ha diversi piani e un ascensore. Se lo usa un bambino disabile non ci sono problemi. Ma se invece è l’insegnante a doverlo prendere, dal momento che non ci sono alternative l’insegnante smette di essere autosufficiente». Mentre le aule sono al secondo piano, la mensa è a piano terra: e negli spostamenti la classe non può essere lasciata da sola. «Ho sempre trovato colleghi disponibili a darmi una mano»,continua la maestra Fabbri. «Ma non può essere questa la soluzione. Il problema è strutturale».

Dopo aver rifiutato un ruolo da impiegata amministrativa nella scuola, all’inizio dell’anno scolastico Alessandra Fabbri ha rinunciato a una classe propria per non essere di peso ai colleghi. Ora insegna italiano ai bambini stranieri dell’istituto. «Capisco i problemi organizzativi e riconosco i miei limiti. Il progetto di cui mi occupo ora mi piace, quindi non mi sento discriminata», assicura senza polemica. «Ma se l’edificio fosse fatto diversamente potrei avere una classe come gli altri insegnanti. Sarebbe bello se almeno gli edifici pubblici fossero adeguati in modo di darci la possibilità di scegliere: sembra che i disabili motori debbano rassegnarsi a fare lavori da ufficio».

Dal punto di vista legale la questione sollevata dalla maestra Fabbri è intricata. La normativa italiana obbliga i datori di lavoro ad adottare alcune misure necessarie per consentire alle persone con disabilità di poter accedere a una occupazione e di svolgerla come tutti gli altri, purché per lui non sia previsto un onere sproporzionato.

La persona con disabilità non è più vista solamente in ottica assistenziale. Certo, ci vuole tempo. È difficile che i diritti vengano assicurati solo perché sono scritti in una legge: ma intanto questa è la base teorica con cui chiederne il riconoscimento.

Vincenzo Falabella, presidente di Fish (Federazione italiana per il superamento dell’handicap), è molto critico. «La normativa non viene applicata perché manca la volontà politica. Servono risorse per l’abbattimento delle barriere architettoniche negli edifici e sui mezzi di trasporto: se un luogo di lavoro non è accessibile ed è difficilmente raggiungibile, il disabile è penalizzato». Sul tema della doppia discriminazione delle donne disabili la Fish è da sempre in prima linea. Tramite il Forum Italiano Disabilità fa inoltre parte del Forum Europeo sulla Disabilità che a inizio settembre ha approvato la traduzione – realizzata dal centro Informare un’H – del “Secondo manifesto sui diritti delle donne e delle ragazze con disabilità nell’Unione Europea”.

«In un Paese dove sopravvive lo stereotipo che sia la disabilità a decidere il tipo di lavoro cui si è adatti, ci ritroviamo con non vedenti laureati che fanno i centralinisti», continua Falabella. «Per le donne è ancora più difficile. Proprio per questo lo scorso anno l’Italia ha ricevuto un richiamo dal comitato Onu sui diritti delle persone con disabilità: mancano misure rivolte alle esigenze delle donne e delle ragazze disabili».

In parte tratto da repubblica.it